
Ammetto che io, nei musei, di arte e artisti vorrei proprio vederne di meno. Ma adesso mi spiego meglio, perché chiaramente preferisco iniziare con una frase che stuzzichi un po’ la vostra curiosità, che è decisamente provocatoria in quanto è naturale che una lettura così estremista e netta di una qualsiasi tematica proprio non mi appartiene.
Quello che intendo dire è che solitamente il museo viene presentato come un luogo deputato all’arte e alla “cultura” (quella alta), anche laddove di arte o cultura ci sarebbe ben poco, poiché sembra quasi che quando un oggetto entri all’interno delle sale di un museo questo acquisisca uno status speciale, una sorta di aura, quella che intendeva Benjamin per dire, sì perché io sono un fiero sostenitore del fatto che Benjamin non c’avesse capito molto dell’arte con la storia dell’aura, o quantomeno ne avesse una lettura giustamente inserita in un tempo molto diverso rispetto a quello contemporaneo, il nostro.
Forse grazie anche alla complicità di questa idea dell’arte come elemento superiore, per certi casi quasi divino, specie se riferito ad opere storiche di 400 o 500 anni fa rese famose da strategiche campagne di comunicazione o eventi casuali (vedasi La Gioconda).
Arriviamo quindi oggi ad avere un museo che si presenta come luogo deputato all’arte e agli artisti più di quanto si presenti alle persone che compongono la cultura vera e propria di un territorio, quella che viene definita “bassa” o “del popolo”, dimenticando però che la cultura non si divide in questo modo, certo ci sono differenze di ceti sociali ma tutto resta parte della stessa cultura, quella in cui siamo immersi e i musei troppo spesso non solo dimenticano questa cosa ma sembra quasi facciano il possibile per sottolineare e addirittura marcare e incitare ad una sempre più netta differenziazione fra le due.
Cosa c’entra questo discorso con l’idea, forse folle a sentirla così, che i musei dovrebbero avere meno arte e artisti al suo interno, o meglio che questi vengano declassati ad una priorità secondaria? In realtà c’entra molto e lo capiremo facendo un giro piuttosto lungo, augurandomi che possiate anche voi non solo comprendere ma prendere parte in questa lotta di parte verso una “deartizzazione” del museo, anche se magari non in modo così radicale.
Partiamo dalla domanda per eccellenza che ci viene rivolta fin da quando avviamo un percorso in questo settore o che più comunemente viene rivolta alle persone anche solo per provocare una reazione che possa suscitare interesse e conflitti, generare un interesse anche in chi non si occupa di certe tematiche, ovvero:
Che cos’è l’arte?
Una domanda a cui è quasi impossibile rispondere direbbero molti, altri ancora parlerebbero di comunicare, o esprimere sensazioni, emozioni e tutta una serie di cose che facciamo davvero difficoltà a spiegare verbalmente o a dimostrare con azioni concrete nel quotidiano. Certo una descrizione come questa rispecchia quella fetta di produzione artistica che è effettivamente considerabile “arte” ma naturalmente non include ogni elemento che oggi consideriamo arte, se volessimo riuscire a racchiudere in poche parole tutto ciò che viene definito arte non se ne uscirebbe facilmente, dovremmo parlare di arte come atto politico, di liberazione, di rigenerazione urbana, per un attivismo sociale, educativa, semplicemente commerciale, estetica, decorativa… insomma avete capito che forse effettivamente rispondere alla domanda, che cos’è l’arte, non è più tanto semplice.
Per quanto mi riguarda ciò che per me può essere considerato “arte” cambia da persona a persona, a seconda dello sguardo che si posa sull’oggetto, o sul mondo stesso, così che questo possa divenire o meno “arte”.
Questo significa che può essere arte pressoché ogni elemento della nostra esistenza e che al tempo stesso nulla è arte. Per quanto possa sembrare uno stupido gioco di parole… è proprio così, l’arte può essere tutto e può essere nulla, si avvale del concetto di “complessità” espresso da Edgar Morin, filosofo e sociologo francese ormai di una certa età e che ne ha viste un po’ di tutte nella sua vita.
Lui dice infatti che la vita è una cosa complessa, ma non complessa nel senso che è difficile da capire o da spiegare come potrebbe essere un’equazione matematica piuttosto difficile, ma complessa nel senso che è qualcosa che non si può spiegare perché le normali logiche di ragionamento con questa cosa proprio non funzionano, per Morin infatti matematica e scienza, per quanto possano essere difficili, restano delle cose “semplici”, che si possono spiegare, risolvere, che hanno dunque un inizio e una fine, laddove nasce un problema arriva ad un certo punto una soluzione, la complessità invece vive in una dimensione più distorta, fatta di contraddizioni, proprio in virtù del fatto che descrive una cosa che vive nella struttura di una molteplicità di punti di vista, per cui può avere senso la frase (cito Morin) di Socrate che diceva che “nella vita c’è la morte e nella morte c’è la vita”, una contraddizione che trova senso solo se presa parzialmente e un pezzetto alla volta ma descrive un significato opposto all’altro, se volessimo tradurlo nel mondo dell’arte potrebbe diventare, tra le infinite possibilità, “quest’opera è sia bella sia brutta”, per portarla su un piano estremamente semplicistico ma di rapida comprensione e che serve ad esprimere concettualmente che un’opera è veramente bella o brutta al tempo stesso perché vive non nella sua natura ma nell’occhio di chi la osserva o la vive.
Oggi il mondo dell’arte, della cultura, in generale quel mondo di cui ci occupiamo, sta arrivando ad appropriarsi del concetto di complessità di Morin e ad applicarlo nelle scritture e nelle pratiche, una cosa abbastanza prevedibile visto che negli ultimi anni ormai si era andati dentro fino all’osso alle teorie (sicuramente più poetiche e artistiche di Morin) della Deriva Situazionista e dei lavori di Debord sul concetto che avvolgeva questa pratica e che in qualche modo invitava alla modifica del proprio punto di vista, di sforzarsi proprio di vedere le cose da una prospettiva altra. La Deriva Situazionista non era altro che un vagare per la città, senza regole se non quella di lasciarsi guidare dall’istinto, senza dover riflettere a ciò che avremmo dovuto fare come impegno sociale o personale, una forma di liberazione totale che non solo divenne nel tempo pratica artistica ma che racchiudeva in sè l’idea che ogni elemento che veniva incontrato durante una deriva aveva una grande importanza, finendo così per dare valore anche alle cose che solitamente non hanno grande valore, dal più piccolo dei fili d’erba, un’ombra o molto semplicemente le cose che non richiedono attenzione nella quotidianità.
Tutto questo, molto in linea con le teorie sviluppate da Benjamin, nasceva dal concetto di Flâneur (da cui la più recente azione di “Flânerie”, che altro non sarebbe che l’azione di una Deriva). Il Flâneur a sua volta viene dalle strade parigine, all’inizio del secolo scorso, quando nascevano le prime “gallerie”, dei luoghi al coperto dove si potevano fare acquisti di ogni genere e che di giorno vivevano una vita sociale estremamente attiva e colorita mentre di notte si trasformavano in luoghi molto meno accoglienti, dove i signori della borghesia andavano a riversarsi in preda ai fiumi dell’alcol, della malizia e di tutte quelle cose che non venivano molto ben accettate se fatte alla luce del giorno. Il mattino successivo ad una nottata in quelle gallerie non era raro trovare un Flâneur ancora sveglio, negli ultimi minuti che separano notte e mattina, arenato sui bordi della strada.
Questa funzione duplice di un luogo che vive due vite totalmente opposte eppure completamente parte l’una dell’altra cerca di mettere in luce il fatto che è necessario vedere le cose da diverse prospettive per poterne comprendere la complessità, in questo caso molto vicina al tipo di complessità che intende Morin. Una pratica come questa vede certamente una interpretazione piuttosto semplice da applicare nel mondo dell’arte, il concetto di Deriva che chiede attenzioni, anche poetica, laddove non viene solitamente nè vista nè cercata, richiama molto al museo come spazio limitrofo dove le persone, a differenza dei vecchi “passages”, si vedono quasi attaccati da un’eccessiva poeticità che quasi perde il suo senso, e nel conferire questa oppressione diventa oggetto non di attenzioni ma di “disattenzioni”, trovandosi a diventare uno spazio in cui è facile non vedere realmente le cose intorno a sé
Dunque che gli studi museali finissero con l’adottare le teorie Situazioniste dovevamo aspettarcelo, molto meno aspettato ma sicuramente piacevole è il fatto che abbiano portato questi ragionamenti sul concetto di complessità di Morin, autore molto vicino ai temi dell’educazione e che, personalmente, consacra il futuro dei musei in modo indissolubile ad una visione molto più “educativa” (o meglio “aperta”, senza dovermi addentrare troppo, per adesso, nell’interpretazione che dò alla parola “educazione”, molto diversa da quella a cui si è abituati e molto più vicina al concetto di “partecipazione”).
Arriviamo quindi a rispondere alla domanda iniziale, che cos’è l’arte, dicendoci che l’arte, dopotutto, è una cosa soggettiva, non molto diversa rispetto a ciò che per noi è bello o meno.
Sorge però un problema a questo punto, se tutto potenzialmente è arte e al tempo stesso niente è arte, allora chi decide, formalmente, cosa sia arte o meno? In maniera informale diremmo semplicemente “ognuno decide per sé" ma se pensiamo in modo formale noteremo che c’è qualcosa che non va, perché ad un certo punto della storia si è smesso di considerare arte ciò che realizzava un’artista e si è cominciato a considerare arte ciò qualcuno definiva come tale. Qualcuno chi? Se non è semplicemente “ognuno” ma qualcuno in particolare allora c’è la possibilità che chi faccia questa scelta non sia esattamente imparziale, oppure che non tenga conto del fatto che anche qualcosa di non apprezzato dai più o ritenuto particolarmente brutto da una maggioranza può essere definito arte. Abbiamo quindi una situazione sbilanciata dove l’oggetto definito “arte” non è tale in quanto esiste ma in quanto selezionato per una serie di motivi che molto spesso nulla hanno a che fare con il messaggio, l’estetica o la poetica ricercata dall’artista. Naturalmente questo ragionamento non riguarda tutte le situazioni in cui ci troviamo a riflettere su chi concede lo status di “arte” ad un oggetto ma attualmente non esistono molti strumenti per riconoscere le differenze fra ciò che diviene arte a buon titolo (quello libero) e a titolo manipolato, per cui ogni dinamica di relazione arte/oggetto vive nella possibilità di essere passato per quel giudizio non imparziale che ne modifica l’aspetto libero e aperto e che vede come risultato quello per cui ciò che finisce nel museo è “arte” mentre tutto quello che viene rifiutato, spesso, viene declassato, alimentando quel discorso di elitarismo della cultura di cui nessuno sente più il bisogno da diversi decenni ormai.
Il problema dell’arte all’interno dei musei potremmo dire che nasce da questo presupposto, e la mia proposta di allontanare l’arte dai musei nasce proprio dalle teorie della Deriva e della complessità di cui abbiamo parlato e che lentamente sono entrate totalmente nel dibattito e nella teoria di questo settore.
Quando dico che vorrei vedere meno arte e meno artisti all’interno dei musei mi riferisco a tutta quella serie di attenzioni che vedono arte e artisti come centro del museo, un centro che però vive di una semplicità estremamente strutturata e priva di potenziali derive complesse, escludendo dal discorso tutto ciò che non rientra nella riflessione generale di chi ha scelto arte e artista come perno centrale della discussione.
Se arte e artista diventano il centro della ricerca di un museo, come spesso accade nei musei che si vantano di essere centri di ricerca (specialmente quelli di arte contemporanea), e quando poi scopriamo che in questa decisione vengono meno i valori di riconoscimento universale e si applicano piuttosto dei limiti arbitrari a quello che si ritiene arte per un singolo individuo (curatore o curatrice o chi per loro) che esalta la propria visione ad un punto di vista unico, che diventa automaticamente di valore immensamente più alto rispetto ai punti di vista di tutte le altre persone che potrebbero essere coinvolte più o meno direttamente, e quando scopriamo che queste scelte decretano che concettualmente si lavora sul rifiuto e sulla scelta insindacabile di una o più persone su quello che può essere o meno un’opera d’arte, possiamo ancora immaginare questa pratica (la ricerca) come ciò che può essere portato avanti da un museo che si professa effettivamente centro di ricerca sull’arte (contemporanea)?
Personalmente ritengo di no, la visione di un museo che si pone al centro di una ricerca sull’arte e che attua, consapevolmente o meno, soluzioni di questo tipo, che sono in realtà estremamente frequenti, lo porta a diventare un luogo deputato non più alla ricerca ma alla manipolazione, alla costruzione artificiale di un’immagine, di un’ideale comunicato ma non perseguito, altra pratica questa molto diffusa nelle istituzioni culturali (quella di dare priorità all'apparenza) e a mio avviso giustificata solo dal fatto che portare avanti ricerca in modo etico, sostenibile e concreto è piuttosto difficile e che si pone come forte controtendenza a tutte le pratiche curatoriali e dirigenziali attualmente attive nei musei nostrani (e in molti altri esempi esteri); non solo, il motivo per cui non si riesce ad avere una presenza ed una ricerca artistica equa e aperta risiede proprio nel fatto che ad oggi nei musei non si riesce (o non si vuole) preferire le persone come centro piuttosto che l’arte.
Immaginiamo questa situazione:
Museo X apre un meraviglioso bando dedicato a giovani artisti per una residenza artistica dove 10 giovani artisti produrranno delle opere che poi verranno esposte temporaneamente all’interno del museo con una mostra dedicata, il bando non prevede costi di adesione e per di più ai 10 selezionati saranno stanziati dai 500 ai 2.500 euro per la produzione dell'opera. Per partecipare al bando bisogna compilare un modulo, inviare la bozza dell’opera o del tema su cui si intende fare ricerca, e la selezione avverrà in due step seguita da una giuria di spicco che selezionerà i 10 partecipanti.
Quante volte avete visto proposte di questo tipo? Quanto pensate siano valide? Quanto pensate che una soluzione di questo tipo sia di tipo elitario, chiuso, non equo?
Le domande che possiamo porci sono molte ma sostanzialmente identificare la ricerca sull’arte con questo tipo di operazioni ci va a collocare esattamente sulla stessa linea del lavoro che svolge regolarmente una persona che si occupa di curatela in modo non sostenibile, che poi è il modo in cui viene raccontato e portato avanti il lavoro del curatore, ovvero il ruolo di quella persona che porta un punto di vista all’interno della situazione richiesta (che sia una mostra, l’allestimento di un museo, di una galleria o altro) e che non si pone nella complessità del museo o dell’arte in sé.
Naturalmente il problema di produrre un bando di questo tipo è quello amministrativo, per cui per avere certi vantaggi (e li chiamo così non a caso) deve essere necessario avere quella che definiscono un’imparzialità, per evitare che ci siano rimostranze, contestazioni e che in linea generale si rispetti una equità nei processi che non possa lasciare spazio al pensiero di azioni come preferenze, raccomandazioni o in generale alcun tipo di trucco che possa essere messo in atto. Un bando di questo tipo però non può che nascere con molti errori che fanno deviare totalmente l’operato di partenza (di gran bontà) di fare ricerca sull’arte, poiché chiaramente tutte queste limitazioni vengono attivate per assicurare una certa imparzialità, ma come può essere imparziale una decisione presa da un ristretto gruppo di persone?
Semplicemente non lo è, per cui è facile comprendere che bandi di questo tipo vanno solo ad alimentare un sistema già di per sé chiuso nella convinzione che la ricerca artistica sia qualcosa di mediato da una giuria, dove per ricerca si intende quasi un cercare qualcosa o qualcuno che possa diventare il prossimo artista buon quotato dalle gallerie quando invece ricerca dovrebbe essere intesa come una pratica di studio, di messa in discussione, di dialogo, una cosa che certamente non necessita di un bando circoscritto a pochi vincitori ma che può, in linea con quello che dovrebbe essere un muso, vedere gli spazi del museo stesso trasformati in luoghi di accoglienza dove tutti gli artisti, giovani o meno, possano entrare in contatto, accedere a risorse, magari anche incontrare questi così tanto importanti curatori ma per aprire una finestra su come migliorare, su come portare avanti una ricerca artistica e su come, magari, sviluppare una serie di lavori che si allontanino dal mondo delle gallerie, sempre troppo soffocato dal bisogno di vendere e dunque circoscritto a quelli che sono i gusti dei compratori.
Il motivo per cui un'operazione di questo tipo difficilmente vede i natali in un museo è proprio dovuto al fatto che i musei oggi mettono al centro l'arte e l'artista e non le persone, per cui al centro si riesce a finire solo se si è già riconosciuti come artisti, se si è quindi già bollati come tali da un qualcuno che ha ritenuto il lavoro di quella persona migliore di altre. Mettere al centro le persone significa comprendere che il ruolo del museo è proprio quello di offrire un servizio alla comunità, alla città, a chi potrebbe averne bisogno.
Per questo motivo si ritorna, grazie ad una dinamica da cui è molto difficile uscirne, in una situazione di grande disagio per le comunità locali di artisti che si vedono lanciati in un contesto che non riesce ad attivare un luogo in cui fare ricerca, come museo e come centro culturale, e si ritrovano piuttosto a dover fare i conti con il mondo delle gallerie, che è molto diverso e che premia non tanto la ricerca artistica quanto più la ricercatezza di un certo modello all’interno di un mercato che possa funzionare. Dunque cosa significa fare ricerca nell’arte? Significa individuare gli stili che più vengono venduti? Significa fare curriculum per poter poi finire in una galleria? Il rapporto fin troppo stretto con le gallerie ci fa comprendere che nonostante il museo nel suo professarsi centro di ricerca sull’arte contemporanea, resta vincolata alle regole del mercato dell’arte, in linea con quello che spesso vediamo nella pratica curatoriale, che si confà alle esigenze di un mercato che arrivano così a definire cosa è o non è arte.
Chiaramente questa dimensione di ricerca ritengo che non sia assolutamente sostenibile, anche già solamente guardando a quelli che potrebbero essere i risultati più rosei, ovvero riuscire a scovare quelli che saranno i prossimi artisti protagonisti delle mostre che il museo ospiterà, il che è certamente un’ottima cosa, seppur nonostante sia ricerca, questa resterebbe chiusa e limitata a pochi, la ricerca in questo caso sembra quasi non appartenere nemmeno al museo, che si limita ad ospitare e non ad intessere attivamente delle relazioni, delle riflessioni, su come, cosa e in che modo andare ad incidere sulla comunità di artisti locali e non, trasformando effettivamente gli spazi del museo in spazi dove collettivamente si porta avanti una ricerca, insieme al museo e non certo “grazie” al museo, anche perché nella grande maggioranza dei casi i musei sono privi di competenze necessarie per uscire dai propri schemi antiquati.
Altro elemento positivo e negativo al tempo stesso di questa ricerca basata sui bandi è che li si tende a vedere come delle opportunità (e certamente lo sono) per arrancare un passetto in più in un mondo che considera giovani persone fino ai 35 anni, età in cui in media non si ha ancora una indipendenza economica se si decide di intraprendere certe strade, per cui facendo leva su questo disagio si alimenta ancora di più il pensiero che vede queste ricerche fasulle come occasioni da non perdere, e se invece queste fossero proprio le occasioni da perdere? Mi rivolgo ai musei che mi leggono e il mio invito và a chi nei musei oggi lavora, se tutte queste azioni fossero cose da dimenticare e da lasciare ad un passato, o almeno ad un altro mondo? Quello delle gallerie è un pianeta molto diverso, che non si pone il problema della ricerca in campo artistico se non dal punto di vista commerciale, ma quello dei musei deve necessariamente seguire questa strada? Eppure ad oggi ci troviamo con decine e decine di linee guida che ci parlano di un museo che sia principalmente sociale, che si pone come obiettivo quello di creare comunità, questa cosa non può accadere anche tenendo conto della comunità di artisti che vivono in un paese?
Naturalmente la risposta è sì, c’è un bisogno disperato di ripensare il museo mettendo al centro la persona e non l’artista, la ricerca può e deve avere due sfumature, la prima quella che vede il museo intento in un effettivo studio di qualsivoglia tipo, che mette in gioco le competenze dei suoi dipendenti per sviluppare innovazione concreta, la seconda è quella che riguarda lo sviluppo in collaborazione con le comunità locali, la grande differenza fra le due tipologie sta nel fatto che una riguarda la messa a disposizione ai dipendenti di strumenti specifici che possano portare ad un obiettivo mentre la seconda mette in gioco diversi strumenti ma in questo caso per persone esterne al museo. Le due cose possono coesistere e collaborare e si basano entrambe sulla forza della comunicazione e la capacità di tessere relazioni, parliamo infatti di un tipo di ricerca che si fa sui libri solo in minima parte poiché nel campo artistico è inevitabile che questo tipo di attività ceda il posto ad una componente di pratica piuttosto preponderante.
Ma come si può fare ricerca sostenibile? Come si può modificare radicalmente il modo in cui il museo si pone verso giovani artisti e non? Il problema risiede nella gestione del museo, il ruolo delle decisioni che vengono prese ha un peso ben più grande di un budget che sia o meno a disposizione, specie se consideriamo che l’impegno civico di un museo che si professa centro di ricerca potrebbe avere un costo piuttosto contenuto per essere sostenibile, provando ad immaginare soluzioni più sostenibili di un bando di questo tipo si potrebbe pensare all’apertura di un atelier condiviso dove insieme si può elaborare o progettare materialmente opere di ogni tipo, mettendo a disposizione una serie di strumenti che faciliterebbe la produzione artistica anche senza il bisogno di dover finanziare direttamente l’artista ma anzi di costituire un nucleo di ricerca condiviso e aperto.
Altre tipologie di soluzioni si avvicinano sempre a delle pratiche di partecipazione che rimandano molto alle azioni svolte da chi si occupa di educazione museale, la ricerca in questo caso oltre che studio deve essere la produzione e la creazione di condivisione affinché questa generi opportunità, connessioni, scambi che possano svilupparsi inaspettatamente e senza alcun tipo di obiettivo da raggiungere.
Costituire una piattaforma, fisica, digitale, esterna o interna al museo, di studio o meno, dovrò sempre avere come perno centrale la condivisione reciproca, rigorosamente orizzontale, di quelle che sono pratiche, idee, materiali e tutto ciò che può essere utile allo sviluppo condiviso.
Il riconoscimento in questo caso non arriva a nessuno artista poiché lo spazio messo a disposizione diventerebbe uno spazio di ricerca pubblico e accessibile, diventando piuttosto motivo di grande vanto per il museo che avrebbe generato un indotto di partecipazione molto più alto e soprattutto coinvolgente, avendo messo in comunicazione una specifica tipologia di comunità appartenente alla città e andando quindi a costituirsi come elemento sociale e non elitario.
Fare ricerca in questo modo diventa non solo sostenibile, poiché una pratica di questo tipo non riuscirebbe a trovare facilmente motivi per cui sarebbe necessario fermarsi, ma diventa anche un “potentissimo motore” (per citare il comune di Parma quando cercava volontari da sfruttare) per lo sviluppo di competenze trasversali, per costituire rete, gruppi di lavoro, partecipazione attiva senza manipolazione e, cosa più importante, sostenibilità economica, sì perché al contrario di quanto si possa pensare migliorare la partecipazione della cittadinanza si risolve sempre in un incremento della partecipazione alla vita del museo, partecipazione che non si limita ad eventi o momenti specifici ma che si estende, laddove viene coltivata con pazienza negli anni, anche al lavoro che il museo porta avanti “autonomamente”.
Ciò che è necessario comprendere è che il museo è realizzato per le persone, senza di queste il museo cessa di esistere, anche laddove un museo continua a vivere grazie ad una folta partecipazione da parte della classe più agiata, il suo scopo è andato perduto insieme ai cittadini “comuni” che si è deciso di abbandonare poiché finalità molto difficile da raggiungere.
Ricordo le parole dell’ex Direttore di Capododimonte, a Napoli, Sylvain Bellenger nel 2023, in una plenaria dove si parlava di come il museo potesse diventare megafono per abbattere la dispersione scolastica raggiungendo proprio i ragazzi e le persone che vivevano nei quartieri difficili nei dintorni del museo, in quell’occasione l’allora direttore disse che non c’era modo di arrivare alle persone, che ci avevano provato ma che non si poteva fare, lasciando tutti increduli, specie chi stava tenendo la moderazione di questa plenaria che ovviamente una volta ascoltate queste parole fa notare che eravamo lì proprio per capire come migliorare le nostre azioni per riuscire invece ad arrivare alle persone, Bellenger però ribadisce con forza che no, proprio non si può fare.
Ecco, questo è solo un esempio ma serve a farci capire che arrivare alle persone è la cosa più difficile che un museo possa (dovrebbe) fare, e che è facile scoraggiarsi e immaginare che non ci sia modo per raggiungere obiettivi che sembrano irraggiungibili in prima battuta, il ruolo di un museo però non può cambiare solo perché l'obiettivo prefissato è “difficile”, bisogna piuttosto rimboccarsi le maniche e cominciare a lavorare a quelle che sono strategie che riescano a coinvolgere prima di tutto le persone, perché solo in questo modo avrò senso continuare a parlare di arte e artisti all'interno dei musei, poiché questi se dovessero restare luoghi di coloro che sono già addetti ai lavori, perderanno totalmente di senso e la loro esistenza non avrò alcun impatto sulla società e sulla città che li ospita e che, teoricamente, dovrebbe essere loro rappresentante.
Aggiungi commento
Commenti